Fusione dell'oro: le varie tecniche

L’oro, come tutti i materiali luccicanti e preziosi, ha sempre esercitato una fortissima attrazione. Da molti secoli, infatti, gli è stato attribuito un valore sia in termini potere economico sia di sacralità a questo metallo difficile da estrarre ma dall’elevatissima malleabilità.

L’immagine del caveau di una banca pieno d’oro, di un forziere ricolmo di monete d’oro o il pensiero delle corone d’oro di una coppia di reali ha sempre trasmesso immediatamente sensazioni di brama, invidia e deferenza al potere che questo elemento incute naturalmente. Con ogni probabilità la caratteristica che rende l’oro un metallo così prezioso è la sua enorme lavorabilità, che ne permette un uso in più settori. Questo metallo nobile, infatti, può essere sfruttato nei più svariati campi dell’industria, dalla gioielleria all’odontoiatria. La fusione, tuttavia, resta il passaggio basilare da cui bisogna partire sia che si voglia trasformare l’oro in un monile di valore sia che si necessiti di tramutarlo in lingotti per poterlo stoccare e quindi suddividere in forme standardizzate e quantificabili.

Sebbene le tecniche di fusione dell’oro  siano relativamente recenti, poiché sono state sviluppate prevalentemente nei numerosi laboratori artigianali sorti nei villaggi nordamericani nel periodo della corsa all’oro del diciannovesimo secolo, quando il prezioso metallo giallo veniva raccolto in grandi quantità nelle miniere e nei fiumi, è possibile rinvenire tracce dell’utilizzo dell’oro già nei testi dell’Antico Testamento. Come sanno quelli di Banca de Oro ovviamente nel corso degli anni le tecniche di fusione hanno subito molte variazioni, legate soprattutto all’evoluzione tecnologica. Le tecnologie odierne sono nettamente più sofisticate, efficienti e precise rispetto al passato, ma nonostante ciò è tuttora possibile lavorare l’oro anche artigianalmente, affrontando i numerosi rischi legati all’uso di sostanze chimiche estremamente pericolose, come l’acido solforico, fondamentali per attuare il procedimento dell’elettrolisi capace scioglierlo in un primo momento e farlo depositare in un secondo. La fusione, pertanto, rimane il processo di lavorazione più diffuso e sicuro.

Il punto di fusione dell’oro è 1.064 gradi e per raggiungere una temperatura così elevata vengono utilizzati degli speciali forni a gas, un combustibile generalmente derivato da una miscela di acetilene e ossigeno, in grado di liquefarlo per consentire di colarlo negli appositi stampi argillosi. Solitamente gli stampi sono sagomati con la cera che, non appena in contatto con l’oro fuso, viene completamente eliminata. Da questo procedimento, comunemente noto come “a cera persa”, nascono i lingotti o i gettoni d’oro, questi ultimi creati anche mediante lo sfruttamento di apposite presse idrauliche.

Nel corso della fusione, l’oro viene separato dagli altri metalli a cui potrebbe essere combinato, favorendone l’impiego in campo odontoiatrico. In questa lavorazione, infatti, prima si crea la forma dell’oggetto in cera e, successivamente, vengono versati gli strati di materiale refrattario che fungeranno da negativo dell’oggetto che si vuole realizzare. Quindi si aggiungono strati sempre più consistenti intorno a quello iniziale finché la cera è totalmente inglobata nella forma desiderata. Una volta che il materiale refrattario è solidificato, l’oggetto viene posto su di una fornace per far sciogliere la cera che cola via lasciando la sua impronta nella pietra refrattaria che in seguito ospiterà la colata di oro fuso. Quando l’oro indurisce definitivamente, lo stampo in pietra viene distrutto per dare alla luce l’oggetto da rifinire a mano. Questa tecnica di fusione, ancora oggi usata in gioielleria e in campo dentistico, vede i suoi primi usi tra gli orafi medio-orientali nel terzo secolo avanti Cristo. Nel dodicesimo secolo avanti Cristo si diffuse anche in Sardegna, Cipro e fra gli Etruschi, per poi propagarsi anche tra i romani e i greci.

Una seconda tecnica di fusione dell’oro è la fusione a matrice. In questa metodologia di lavorazione viene utilizzata una matrice, cioè un contenitore di un materiale con un punto di fusione più alto dell’oro, nel quale il materiale aureo viene versato già liquefatto per essere messo a raffreddare fino a solidificarsi. La matrice non è altro che il negativo, lo stampo del risultato che si vuole raggiungere che solitamente è fatto di pietra, argilla, impasto di sabba o, addirittura, lega di rame. La tecnica della fusione a matrice è molto antica e tradizionalmente può alternarsi l’uso di matrici univalve o bivalve. Le prime vengono definite anche a un “pezzo solo” o “aperto”, dentro al quale l’oro viene colato. Le matrici bivalve, invece, sono composte da due o più pezzi scomponibili, caratteristica che consente la realizzazione di un oggetto tridimensionale. Tutti i pezzi delle matrici bivalve si chiudono, vengono riempite d’oro e poi, quando il metallo è perfettamente solido, i pezzi vengo riaperti. Questa tecnica di fusione dei metalli è molto antica tanto da essere conosciuta fin dall’età del bronzo, epoca in cui era molto diffuso il sistema della fusione con osso di seppia, un materiale utilizzato al posto della pietra refrattaria grazie alla sua capacità di conservare la sua forma senza sciogliersi al primo contatto con il metallo fuso. Questa tipologia di lavorazione è usata ancora oggi in particolare quando si abbia la necessità di eseguire dei bassorilievi o, in alcuni casi sempre più rari, degli altorilievi.